La birra artigianale si contraddistingue da quella industriale per il procedimento produttivo, che ne determina le peculiarità organolettiche e ne rappresenta al tempo stesso il punto di forza e il punto di debolezza. Ecco come e perché alcune analisi chimiche e microbiologiche possono aiutare a monitorare la qualità del prodotto.
Assenza di filtrazione e pastorizzazione: identità e minaccia
In genere, il processo artigianale non prevede queste due operazioni, che invece sono fondamentali a livello industriale. In estrema sintesi, la filtrazione conferisce al prodotto limpidezza e stabilità sia microbiologica che chimico-fisica, la pastorizzazione lo sterilizza uniformandone profumi e sapori.
L’assenza di queste due fasi di lavorazione, dunque, ha un doppio effetto sulla birra, perché da una parte ne caratterizza l’identità artigianale, dall’altra rende il prodotto più vulnerabile a processi di alterazione microbica e chimico-fisica. Dunque ai caratteri tipicamente “artigianali”, sempre più apprezzati da consumatori orientati verso alimenti e bevande percepiti come naturali e genuini, purtroppo non sempre corrispondono qualità gusto-olfattiva e capacità di conservazione.
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L’incostanza produttiva
Inoltre il processo produttivo artigianale tende ad essere poco ripetibile, nel senso che attualmente in Italia non esistono disciplinari che regolamentino il rispetto di caratteri chimico-fisici specifici. Cosa che invece, per esempio, esiste nel Regno Unito, dove il Code of Practice della Society of Independent Brewers ha indicato limiti microbiologici e chimici ben precisi per i propri soci.
Ciò non toglie che ogni mastro birraio possa far riferimento a standard qualitativi consoni, da monitorare attraverso l’indagine analitica.
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Va de retro batterio!
La birra, in realtà, è un ambiente scomodo per molte specie microbiche: c’è poco ossigeno, scarsi nutrienti e un basso pH, mentre abbondano anidride carbonica, etanolo ed estratti e derivati del luppolo. Tuttavia, in assenza di filtrazione e pastorizzazione, certi microrganismi presenti naturalmente nella materia prima possono persistere e dare il peggio di sé, sviluppando processi indesiderati.
In particolare sono i batteri lattici, che si trovano principalmente sulle cariossidi dell’orzo, i maggiori responsabili di buona parte dei fenomeni alterativi.
Parlando di altri tipi di batteri invece, il tanto temuto aroma di uova marce che si può ritrovare in alcune birre difettose è una conseguenza di contaminazioni da ceppi riferibili a Pectinatus e Megasphaera. Si tratta di due generi di batteri Gram negativi, responsabili anche di altre sostanze poco gradevoli al naso, come l’acido butirrico, che genera sentori rancidi e l’acido caproico, che invece determina uno sgradevole odore riconducibile al sentore di capra.
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Quali analisi fare per monitorare la qualità
Tuttavia, la qualità della birra non è rilevabile solo al palato, spesso anche quando l’assaggio è condotto da un panel addestrato secondo le regole dell’analisi sensoriale, possono sfuggire dettagli importanti, soprattutto per quanto riguarda la conservabilità.
Prima di lasciare che il prodotto raggiunga il consumatore, è importante monitorarne alcuni parametri fondamentali. Dal punto di vista microbiologico, oltre alla conta totale dei batteri, si può diagnosticare la presenza nel prodotto di batteri lattici e lieviti indesiderati, tra cui il Brettanomyces. Invece dal punto di vista chimico-fisico, le analisi sul pH, l’IBU (l’unità di amaro), il colore e la shelf life (il comportamento del prodotto nel tempo) permettono di approfondire le caratteristiche organolettiche e anche tecnologiche di prodotto, in base alle tipologie di birre.
Si tratta di parametri che permettono di verificare gli standard di qualità sul prodotto finito, prima e/o dopo l’imbottigliamento.