“L’Umami è camaleontico, si veste di gusti diversi, perciò è difficile da individuare” afferma Mirco Marconi, visiting professor presso l’Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo, nel descrivere il c.d. quinto gusto.
Avete letto bene, quinto; per chi pensava ancora che i gusti fossero solo quattro è giunto il momento di fare qualche chiarimento: nel 1909 il dottor Kikunae Ikeda, professore di chimica all’Università di Tokyo, scoprì che l’Umami contribuisce, al pari di dolce, salato, amaro e acido a concorrere alla nostra percezione del nostro gusto, pure nella birra. Stranamente, anche se lo gustiamo ogni giorno, il quinto gusto è rimasto sconosciuto per anni nonostante si trovi in moltissimi piatti della nostra alimentazione, dagli spaghetti con ragù di carne al parmigiano, dalle sardine ai funghi.
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Ma partiamo dall’inizio: che cos’è l’Umami?
La ricerca del professor Ikeda partì dal dashi, brodo di pesce noto nella cucina giapponese, che Ikeda riteneva avesse un gusto chiaramente distinto dai quattro che si conoscevano fino ad allora. Determinato a scoprire quale fosse la ragione di questa diversità, riuscì ad isolare dall’alga kombu, l’ingrediente base del dashi, un composto cristallino che prende il nome di acido glutammico, primo responsabile del gusto Umami.
Oggi sappiamo che oltre alla molecola principale scoperta da Ikeda nell’alga kombu, ce ne sono altre due che funzionano come sinergizzanti, cioè aumentando la percezione dovuta al glutammato: l’inosinato, presente nel tonno katsuobushi, e il guanilato, presente nel fungo shiitake: tutte e tre sono molecole che ci fanno percepire il gusto Umami, e quando sono presenti contemporaneamente in un prodotto il quinto gusto viene esaltato alla massima potenza, spiega il professor Marconi.
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Nonostante la sua portata rivoluzionaria, la scoperta di Ikeda rimase sconosciuta ai più fino al 2002, quando venne confermata grazie all’identificazione dei recettori gustativi del glutammato monosodico, componente principale dell’Umami, già salito più volte agli onori della cronaca: ne è un esempio la c.d. sindrome da ristorante cinese che si manifesterebbe con vampate di calore, difficoltà di respirazione e forti mal di testa, ma che non ha alcun valore scientifico. Spiega Marconi che non sono mai state trovate prove contro i cibi della tradizione orientale, piuttosto è possibile che i casi denunciati fossero causati da intolleranze personali o, ancor più probabilmente, da poca freschezza delle materie prime, adulterate con glutammato per tentare di migliorarne la qualità.
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Addizionato ai cibi, infatti, il glutammato monosodico prende il nome di E621 e viene comunemente identificato come esaltatore di sapidità che, come da definizione, rende più saporite le pietanze a cui viene aggiunto; di per sè non fa male, a patto che ne venga evitato l’abuso per percepire meglio i sapori sprigionati dai nostri piatti.
Umami. in giapponese significa delizioso, ma attenzione: se lo si assaggia da solo, acqua e glutammato insieme, ha un sapore piuttosto cattivo, neanche i giapponesi lo riconoscono così, per questo è chiamato esaltatore di sapidità: non è buono di per sè ma riesce ad esaltare i sapori ai quali viene associato.
Nella birra la sua presenza è limitata, in quanto deriva in tracce dalle materie prime ed in parte è prodotto dai microrganismi che agiscono nella trasformazione del mosto: la sua influenza, comunque, non è da sottovalutare, in quanto, come già evidenziato, agisce sulla percezione degli altri sapori.