La misura dell’amarezza della birra si esprime comunemente come IBU (International Bittering Units) ed è un valore che spesso si trova anche sulle etichette delle birre artigianali dal momento che si tratta di un dato largamente utilizzato, soprattutto in questi tempi più recenti.
Il valore di IBU misura un parametro che è direttamente proporzionale agli iso-α-acidi presenti, cioè l’assorbimento di luce ad una determinata lunghezza d’onda. Questo dato però subisce anche l’influenza di altri fattori, come quelli derivanti dall’ossidazione degli iso-α-acidi o dalla quota degli α-acidi non isomerizzati, che tendono a essere meno amari.
.
.
L’ufficializzazione che l’amarezza della birra sia dovuta agli iso-α-acidi è vero però solo per alcune tipologie; per le birre che hanno valori superiori ai 40 IBU questo non è più corretto e per questo la misurazione degli IBU è stata più volte oggetto di critiche. Questo anche perché la formula di misurazione venne messa a punto negli anni ’60 quando i luppoli erano ancora confezionati in balle non immagazzinate al freddo e dunque risultavano sicuramente più ossidati e deteriorati di quelli odierni. Risultava quindi che il rapporto numerico tra iso-α-acidi e i loro prodotti di ossidazione fosse più basso rispetto ad oggi, quando invece un valore di IBU corrisponde ad un valore di iso-α-acidi superiore e quindi ad una maggiore amarezza.
.
.
Ad oggi il valore di IBU può essere misurato direttamente attraverso l’analisi chimica, oppure stimato utilizzando un’opportuna formula di calcolo che tiene conto, in primis, della quantità di luppolo contenuta e della percentuale di iso-α-acidi. Spesso il valore finale non è precisissimo ma serve in ogni caso a dare un’idea approssimativa del grado di amarezza, suggerimento spesso apprezzato dai consumatori, in particolar modo quelli meno esperti in materia ma molto sensibili al gusto finale.