Brouwerij Westvleteren

Tratto da La birra nel mondo, Volume V, di Antonio Mennella-Meligrana Editore

Westvleteren/Belgio
È il birrificio dell’abbazia trappista di Nostra Signora di St. Sixtus delle Fiandre Occidentali, a circa 4 chilometri dal villaggio di Westvleteren, poco distante da Poperinge.
Secondo la tradizione locale, la presenza religiosa nella zona risale all’806. Ma la prima citazione di un monastero è del 1260, con una piccola comunità di suore. Nel 1375 la proprietà passò all’abbazia di Ter Duinen, che non v’instaurò alcuna presenza monastica. Nel secolo XVII vi s’insediò una comunità maschile appartenente all’ordine di Santa Brigida. Poi, nel 1784, Giuseppe II abolì in tutto l’Impero gli ordini religiosi contemplativi. Infine, nel 1790, la tradizione monastica fu definitivamente spazzata via dalla rivoluzione francese.
Nel 1814 Jean-Baptiste Victoor lasciò Poperinge e si stabiì nelle foreste di Westvleteren per vivere da eremita. Durante l’estate del 1831, un anno dopo la conquista dell’indipendenza del Belgio dal Regno dei Paesi Bassi, tre monaci della vicina abbazia trappista del Mont des Cats si unirono all’eremita. Il 4 novembre dello stesso anno, uno di loro, dom Franciscus-Maria, fondò il monastero di Nostra Signora di St. Sixtus, che solo 40 anni dopo riceverà il titolo di abbazia.
Nel 1836 il monastero di St. Sixtus passò alle dipendenze di Westmalle, abbazia-madre di tutti i monasteri cistercensi del Belgio.
Nel libro di cassa del monastero sono annotate, in data 15 giugno 1838, le prime spese per un birrificio. A maggio del 1839 il monastero ricevette la licenza per birrificare firmata dal re Leopoldo I il 19 aprile precedente (una copia è esposta nel Claustrum). Probabilmente nello stesso mese di maggio fu prodotta una birra di prova. Comunque, ufficialmente, la prima produzione avvenne nel giugno successivo, come testimoniano i registri contabili che riportano 25,45 franchi belgi pagati per i diritti. E la produzione continuò per il solo consumo interno dei monaci, venendo ovviamente servita agli ospiti e ai visitatori del monastero.
Solo nel 1877 avvenne la prima commercializzazione delle birra, per il sostentamento del monastero, ma con una diffusione piuttosto modesta.
Durante la prima guerra mondiale, l’abbazia di St. Sixtus fu l’unica a non subire l’occupazione tedesca, anzi riuscì a dar rifugio a migliaia di sfollati. E il birrificio continuò a operare, anche se a capacità ridotta.
Per finanziare poi l’espansione e l’ammodernamento del birrificio, nel 1928 vennero ampliate sia la produzione che la gamma di birre. Fino a che la produzione di birra artigianale divenne un’attività economica principale. Durante gli anni ’30 i monaci usavano addirittura i camion per la distribuzione.
Neanche nel corso della seconda guerra mondiale l’abbazia subì occupazione o distruzione degli immobili. Aveva insomma le carte in regola per una facile espansione brassicola e mettersi al passo degli altri birrifici trappisti.
Invece, nel 1946, padre De Groote, da 30 anni abate di St. Sixtus, decise di mettere un freno all’attività brassicola che, con la commercializzazione ormai in tutta la regione, distraeva troppo i monaci dalle attività religiose.
La birra sarebbe continuata a essere prodotta ma solo in piccole quantità, e in questi termini: per soddisfare le esigenze interne del momastero, per poterla vendere soltanto alle sue porte e per rifornire il caffè In de Vrede e altri due locali del villaggio. Mentre sarebbe stata data licenza illimitata di produzione e vendita, col marchio del monastero, all’amico Evarist Deconinck.
Evarist Deconinck, nel 1934, aveva rilevato, nel villaggio di Watou, il caseificio del Rifugio Notre Dame de St. Bernard della comunità di Catsberg che era ritornata in Francia. Quindi sapeva fare solo il formaggio. Ma i monaci stessi lo aiutarono a costruire il birrificio accanto al caseificio. Mentre il mastro birraio di Westvleteren, Mathieu Szafranski (di origine polacca), passò a Watou, diventando socio del nuovo birrificio St. Bernard e utilizzando le ricette, il know-how e il ceppo di lievito di St. Sixtus.
Nel 1962 i monaci rinnovarono alla Brouwerij St. Bernard la licenza per altri 30 anni.
Nel 1990 Westvleteren aveva un birrificio rinnovato per la quinta volta, in grado di poter camminare con le proprie gambe.
Alla scadenza dell’accordo con la Brouwerij St. Bernard, nel 1992, riportò quindi la produzione all’interno dell’abbazia, nel rispetto dei nuovi regolamenti europei che imponevano di indicare un prodotto trappista solo se effettivamente realizzato in un monastero trappista.
E il 1992 segna la data ufficiale di fondazione della Brouwerij St. Bernardus, che continuò a produrre birre simili ma sotto il proprio nome e in condizioni privilegiate. Già, aveva in mano le quattro ricette della St. Sixtus (Extra 4, Pater 6, Prior 8 e Abt 12), alle quali aggiunse poi altre proprie, che, ugualmente, rivelano chiaramente l’impronta monastica.
Soprattutto alla St. Bernardus rimase il lievito St. Sixtus. E i monaci furono costretti ad acquistarlo dalla Rodenbach. Sicché, quando, il primo dicembre del 1999, la Palm, che aveva da poco acquisito la Rodenbach, interruppe la fornitura di lievito a tutti i clienti, Westvleteren dovette rivolgersi ai frati di Wesmalle.
Tornata entro le mura dell’abbazia, la produzione totale della birra St. Sixtus rimase molto limitata, in quanto i monaci erano fermamente determinati a continuare l’attività senza però che essa prendesse il sopravvento sulla loro vita quotidiana. Del resto, oltre che alla preghiera, loro si dedicano per vocazione più volentieri ai lavori agricoli. E Joris, il monaco responsabile della produzione si esprimeva così: “Viviamo grazie alla birrificazione, ma lo facciamo in modo da poter continuare a mandare avanti la nostra vera attività, e cioè essere monaci”.
Principalmente, la produzione era destinata al consumo interno. La vendita avveniva solo nella bottega del monastero, una sorta di sportello passavivande, e nel café In de Vrede (che vuol dire “nella pace”), sul lato opposto della strada. Addirittura sulla ricevuta rilasciata dall’abbazia c’era scritto che le birre non potevano esser rivendute. Mentre, ogni qual volta iniziava la vendita di una partita, i consumatori locali erano costretti a lunghissime code, e potevano acquistate solamente 10 casse (da 24 bottiglie) per persona.
Comunque, i café belgi che riuscivano a entrare in possesso di quantità limitate di bottiglie le vendevano a un prezzo ragionevole, cioè non tanto più alto delle altre birre trappiste. Così come il De Biertempel, un negozio specializzato nel centro di Bruxelles. Mentre alcuni decoravano il bancone con le casse di legno vuote contrassegnate dal logo dell’abbazia.
Una situazione insomma più che tranquilla. Del resto i monaci non avevano alcun interesse a vendere le proprie birre attraverso i distributori o a promuoverle tramite pubblicità. E, quando, verso la fine degli anni ’90, un importatore americano etichettò e mise in vendita negli Stati Uniti bottiglie ottenute tramite terzi, i frati ricorsero alle vie legali per bloccare la vendita.
Poi, nel 2005, dalla classifica annuale di gradimento di RateBeer la Westvletern 12 usciva come “la migliore birra del mondo”. Fecero, di conseguenza, il resto molti giornali e siti dedicati alla birra artigianale. E Westvleteren, contro la propria volontà, si ritrovò avvolta in un alone mediatico. Cominciarono a fioccare le richieste, sempre più pressanti, perché fosse aumentata la produzione. I monaci, imperterriti, continuarono la produzione limitata a 60 mila casse l’anno, equivalenti a 4750 ettolitri. Mentre il numero di casse acquistabili da ciascuno, da 10, man mano, si ridussero a 2. E non solo.
Per evitare l’invasione di auto con file chilometriche, i monaci, a settembre 2006, presero questa decisione: bisognava telefonare, prenotarsi, dare il numero di targa della propria auto e andare a ritirare la birra nel giorno e all’ora prestabiliti; poi, per 60 giorni, non si poteva più telefonare.
A ottobre 2011, Westvleteren fu costretta a fare ciò che non aveva mai fatto: la vendita della birra oltre le mura del monastero. Purtroppo, da circa 10 anni crepe e avvallamenti minacciavano la stabilità degli edifici. E, per finanziare i lavori, i monaci ebbero un’idea da veri businessman. Sottoponendosi a un notevole sforzo produttivo, crearono 93 mila attraenti cofanetti, chiamati Pierre d’abbaye promuovendoli con lo slogan “Una birra per un mattone”. Ogni cofanetto, contenente 6 bottiglie da 33 cl di Wstvleteren 12 (ribattezzata per l’occasione Westvleteren XII, col numero romano serigrafato) e 2 coppe da degustazione, costava 25 euro.
La distribuuzione fu affidata alla catena belga della GDO Colruyt. E la vendita, che si esaurì in due giorni, procurò all’abbazia circa 2 milioni 300 mila euro. Un successo che, a inizio 2012, incoraggiò la distribuzione, a un prezzo intorno ai 70 euro, di altri 10 mila cofanetti in Canada e Stati Uniti e 76 mila in diversi paesi europei (Italia compresa). Nello stesso tempo, il birrificio s’impegnava in un ulteriore plus lavoro produttivo per garantire la vendita, presso l’abbazia, di 4 mila ettolitri annui.
Si può facilmente immaginare quale e quanta speculazione venisse fatta in circostanze del genere. Web, beershop on-line, Ebay, rivenditori privati, raggiunsero i picchi più alti nei loro prezzi esorbitanti. Ma si sa, “alla prima scossa di terremoto, spuntano gli sciacalli come funghi”.
Quello che invece lascia abbastanza perplessi è la constatazione di alcuni birrofili che hanno potuto mettere a confronto le due versioni della Westvleteren, ovvero la 12 e la XII. Una certa differenza qualitativa, che fa pensare a un appalto esterno della XII.
Anche se la sua costruzione ricorda molto più un ambiente rurale che non religioso, l’abbazia di Westvleteren è famosa per la sua spiritualità, caratterizzata rigidamente dai tre elementi fondamentali della vita trappista: preghiera, lettura e lavoro manuale. Addirittura, contrariamente alle altre abbazie trappiste, è chiusa alle visite del pubblico.
La comunità è la più ampia tra quelle trappiste (28 monaci), e la più giovane.
L’età media, 54 anni, è notevolmente più bassa rispetto a quella delle altre comunità religiose delle Fiandre Occidentali. L’attuale abate è Manu van Hecke.
Ugualmente, la sua fabbrica di birra, pur essendo la più piccola per dimensioni e produzione tra quelle trappiste belghe, ha un’ottima reputazione.
Anzi, da qualche decennio, gli stessi altri frati trappisti la considerano la migliore al mondo.
È del resto l’unico birrificio trappista nel quale i monaci seguono personalmente tutto il processo produttivo: i cinque addetti alla produzione vengono aiutati da altri cinque durante l’imbottigliamento.
La distribuzione è realizzata direttamente dal monastero, senza intermediari, con regole rigidissime; soltanto una piccola parte va fuori del Belgio. Mentre, a rintuzzare le insistenti richieste, ci pensa il motto del loro sito: “Produciamo birra per vivere, non viviamo per produrre birra”.
Fino al 1999, le quattro birre in produzione si chiamavano semplicemente 4 (la più leggera e l’unica chiara, servita ai monaci durante i pasti), 6, 8 e 12, venivano identificate dal colore dei tappi (rispettivamente, rosso, verde, blu e giallo) ed erano tutte scure, eccetto la 4 ovviamente. Poi, il 10 giugno 1999, in occasione della riapertura, dopo la ristrutturazione, del café In de Vrede, fra Filip creò la Westvleteren Blond, che sostituì la 4 (g.a. 4%) e la 6 (g.a. 6,2%).
Attualmente, le birre dell’abbazia di St. Sixtus, meglio conosciute come Westvleteren, dal nome del paese dove risiede il monastero, sono tre: la Blond, la 8 e la 12. Si presentano in una bottiglia di vetro scuro da 33 cl, dalla forma affusolata e snella, senza etichetta, ma con la sola dicitura “Trappisten Bier” in rilievo sul vetro. Tutte le altre informazioni, richieste dalla norma della UE del 29 agosto 2014, sono riportate sul tappo.
La gamma di Westvleteren appartiene al versante dolce delle birre trappiste: un singolare abboccato di malto diluito sapientemente da note speziate e fruttate. Mentre l’assenza della centrifugazione e del filtraggio, per la costante rifermentazione trappista in bottiglia, lascia intatta la pienezza del gusto. Gli esperti, ovviamente la 8 e la 12, le definiscono birre da meditazione, per le straordinarie sensazioni complesse che regalano al palato.
Westvleteren Blond (tappo verde), trappista in stile belgian ale di un bel colore biondo con riflessi dorati e dall’aspetto leggermente velato per i lieviti in sospensione (g.a. 5,8%). Birra base, prodotta con un mix di orzi francesi e di luppoli delle varietà Hallertau e Target, rifermenta in bottiglia per 8 giorni a 26° C.All’inizio era piuttosto amara; in seguito, per renderla più accessibile ai palati, la luppolizzazione è stata diminuita. Molto fresca e fruttata, viene consumata dai monaci durante i pasti. Con una carbonazione persistente e insistita, la schiuma bianca sbocca rocciosa, fine, compatta, cremosa, con buona ritenzione e allacciatura. Nella sua elevata intensità, l’olfatto offre freschi profumi di luppolo fiorito, malto, fiori bianchi, esteri fruttati, banana acerba, agrumi, fieno, lievito selvatico, mela verde, erba appena tagliata. Il corpo medio tende decisamente al leggero, in una consistenza morbida e setosa. Nel gusto, dopo un breve ingresso dolce di frutta gialla matura, cominciano a salire in superficie note erbacee e di fiori di luppolo che apportano un amarognolo rustico, poi anche aspro. Il finale, pulito e asciutto, è tutto un’esplosione amara dei fiori di luppolo fresco, che il retrolfatto cerca in qualche modo di mitigare con una venatura dolciastra delle sue lunghe suggestioni. E’, questa, l’unica delle tre birre che può essere conservata massimo un anno, in quanto l’invecchiamento influisce sul fruttato e sul sapore del luppolo.
Westvleteren Extra 8 (tappo blu), trappista dubbel di colore tonaca di frate con riflessi rossastri e dall’aspetto alquanto intorbidito (g.a. 8%); rifermentata in bottiglia per 10 giorni a 26° C. È la più fruttata delle tre, e deve il suo tipico colore scuro all’utilizzo di zucchero caramellato. Per le caratteristiche si avvicina alla belgian strong dark ale, ma ha la complessità inimitabile delle birre trappiste. La carbonazione è piuttosto vivace; la schiuma ocra, abbondante, minuta, compatta, cremosa, di straordinaria durata e aderenza. All’olfatto, lo spino nero si mette subito in evidenza, tra intensi e piacevolissimi profumi di malto tostato e cacao in polvere, pera e prugna, ciliegia sciroppata e albicocca disidratata, nocciola e frutti rossi, legno e vaniglia, caramello e amaretto, vino liquoroso e cognac. Il corpo medio ha una spessa trama cremosa. Il gusto stratificato, inizialmente di caramello, assume, verso il centro della concitata ed effervescente corsa, una consistenza tostata che volge presto verso l’asciutta, amaricante, fragranza delle mandorle. Il finale, dolce e aromatico, asciutto e acidulo, reca una nota asprigna apportatrice di una lieve astringenza. Nella lunga persistenza retrolfattiva viene finalmente allo scoperto l’alcol, rimasto in ombra per l’intero percorso gustativo, e si fa ben notare nel calore inebriante della frutta sotto spirito. Un prodotto, questo, ideale per l’invecchiamento, che conferisce una seducente complessità di miele, noci, cera d’api, anche un taglio medicinale.
Westvleteren 12 (tappo giallo), abbazia quadrupel color tonaca di frate e dall’aspetto torbido (g.a. 10,2%). È considerata una delle migliori birre al mondo, se non la migliore. Oggetto di culto per i birrofili, sa esprimere, nella sua estrema semplicità, la massima complessità. Fino al 1940 veniva chiamata Abt, e da allora, stando ai registri dell’abbazia, ha subito la necessaria evoluzione. Utilizza anch’essa zucchero caramellato, ma rifermenta in bottiglia 12 giorni a 26° C. La carbonazione, con una presenza di alcol così alta, è ovviamente piuttosto bassa. La schiuma, di un avvincente colore leggermente caramellato, risulta modesta e di rapida dissoluzione; lascia comunque un lieve strato di allacciatura al vetro. In un’ elevatissima intensità, l’olfatto esprime tutta l’elegante finezza dei suoi profumi, dalla ciliegia alla prugna sciroppata, dalla banana matura all’uva passa, da un ricco e morbido malto tostato al caramello bruciato, dal cacao in polvere al caffè in grani, dalla liquirizia al lievito belga deliziosamente speziato. Il corpo possiede la consistenza della trappista di razza; ma si accosta al palato con calda delicatezza e cremosità vellutata. Il dolce e l’amaro, lo speziato e l’acidità, si fondono a meraviglia in un gusto pieno, rotondo, per comporre quell’eccellente equilibrio gustativo che lascia segni indelebili. L’alcol, c’è, eccome, ma sa nascondersi in modo fantastico, incuriosendo a scoprire le vesti sotto cui agisce: porto, sherry, madera, passito. Nel finale, la calda dolcezza viene stemperata da un intrigante amarore di china ed erbe officinali. Nell’ampia ricchezza retrolfattiva si esaltano lunghe sensazioni di toffee, cioccolato, malto mielato, frutta sotto spirito, pane, banana, luppolo floreale.