Brasserie d’Orval

Tratto da La birra nel mondo, Volume III, di Antonio Mennella-Meligrana Editore

Villers-devant-Orval/Belgio
La Brasserie d’Orval è un birrificio trappista, appartenente all’Abbey de Notre-Dame d’Orval. E questa abbazia, il cui nome significa “Valle d’Oro”, si trova in un villaggio a 10 chilometri da Florenville, nella provincia vallona del Lussemburgo. Siamo vicino al confine francese, in una splendida valle boscosa delle Ardenne, nei pressi dell’antica strada romana che da Trier, in Germania, portava a Reims, in Francia.
Come molte abbazie sparse per l’Europa, anche quella di Orval ebbe una storia travagliata: invasa, saccheggiata e incendiata a più riprese. Ma fu sempre rimessa in piedi.
Storicamente, la fondazione risale al 1132. La leggenda invece inizia molto prima. Nel 1070, intrepidi monaci benedettini, stanchi delle guerre che affliggevano l’Italia, lasciarono il loro convento in Calabria e si trasferirono in Germania. Su consiglio poi dell’arcivescovo di Trier, cercarono una nuova collocazione nelle Ardenne. Qui, il conte Arnoldo II di Chiny, concesse loro alcuni appezzamenti di terra di sua proprietà perché fondassero la prima comunità benedettina in Belgio. I monaci, grazie ai proventi di alcune miniere di sale, iniziarono la costruzione di una chiesa, di un monastero e di una fattoria.
Sempre secondo la leggenda, nel 1076 il conte Arnoldo, per alleviare le sofferenze di Matilde di Canossa, la portò a vedere i lavori che i monaci stavano portando avanti. Sofferenze, dovute all’assassinio del marito, Goffredo il Gobbo, in un agguato mentre si apprestava a dare battaglia sulla Schelda agli storici nemici Teodorico V d’Olanda e Roberto I delle Fiandre; e alla morte del figlio di otto anni in seguito alla caduta nelle gelide acque del fiume Semois, affluente della Mosa, che scorre nelle vicinanze di Florenville e Chiny.
All’interno delle mura del monastero, Matilde immerse le mani in una sorgente per rinfrescarsi il viso. Un gesto fatale! Perché le scivolò dal dito l’anello nuziale al quale lei attribuiva un grande valore affettivo. Presa dalla disperazione, la contessa non poté fare altro che invocare fervidamente la Vergine Maria. Ed ecco che, di lì a poco, una trota balzò dall’acqua e le porse tra le mani il gioiello che aveva in bocca.
“Questa è proprio una valle d’oro!”, esclamò Matilde sbalordita: aurea vallis, in francese val d’or. E, dalla leggenda, si passò a invertire le parole per farne Orval, il nome dell’abbazia. A loro volta, la sorgente fu dedicata alla contessa e il disegno stilizzato di una trota con in bocca un anello diventerà il logo della birreria, che sarà registrato nel 1934.
Intorno al 1108 i monaci scomparvero da Orval. Pare che fossero stati chiamati in Terra Santa (per occupare il monastero di Santa Maria di Sion) da Goffredo di Buglione che, nel 1099, aveva fondato i Cavalieri dell’Ordine di Nostra Signora di Sion.
Ottone, figlio del conte Arnoldo, rimpiazzò i monaci con una piccola comunità di canonici venuti da Trier che completarono le opere lasciate incompiute. E, nel 1124, la chiesa di Orval fu consacrata da Henri de Winton, vescovo di Verdun.
Pochi anni dopo, in difficoltà economiche, i canonici furono costretti a chiedere l’affiliazione all’ordine di Cîteaux, a quel tempo in piena espansione. Richiesta, che fu accettata nel 1132; e subito arrivarono a Orval sette monaci da Trois-Fontainas. I due gruppi diedero vita a una singola comunità di ordine cistercense, sotto la guida del primo abate, Constantin.
Intorno al 1252 il monastero fu distrutto da un incendio, e occorsero circa 100 anni per la ricostruzione. Mentre, per lo stato di povertà in cui versava, più volte si arrivò a paventare la soppressione da parte delle autorità centrali dell’ordine cistercense.
Durante il secolo XV e il XVI le guerre tra Francia e Borgogna, prima e poi, tra Francia e Spagna, portarono morte e distruzione in tutta la zona corrispondente all’attuale provincia belga del Lussemburgo, non risparmiando Orval.
In questo difficile contesto, nel 1529 l’imperatore Carlo V mostrò la sua magnanimità concedendo all’abbazia di istituire una fonderia monastica, attività facilitata dalla vicinanza di fiumi, laghi e foreste da cui procurarsi il legno. Da allora la comunità non fece che prosperare, grazie all’oculata gestione dell’abate Bernard de Montgaillard.
Purtroppo, nel 1637, al culmine della guerra dei trent’anni, le truppe del maresciallo de Châtillon saccheggiarono il monastero e lo distrussero completamente, insieme alle sue dipendenze. La ricostruzione avvenne in un clima di grande insicurezza e richiese decenni. Dal 1668 al 1707, Orval ebbe un altro grande abate, Charles de Bentzeradt, che fu soprattutto un riformatore.
Sull’esempio dell’abate de Rancé, istituì anche a Orval la Stretta Osservanza trasformando il monastero in trappista.
Nel 1723, quella di Orval, risultava la comunità più numerosa dell’Impero, con ben 130 membri. Mentre la sua fonderia figurava tra le più importanti di tutta l’industria siderurgica europea.
Dal 1760 in poi i guadagni furono principalmente destinati alla costruzione di un nuovo monastero, su progetto del famoso architetto Laurent-Benoit Dewez. La nuova chiesa fu consacrata nel 1782; poi i lavori rallentarono e s’interruppero per mancanza di fondi.
Infine, nel 1793, durante la rivoluzione francese, le truppe del generale Loyson rasero al suolo l’abbazia, rea di aver ospitato le truppe austriache. Nella circostanza, perse la vita padre Pierre, ultimo dei birrai di Orval a essere anche monaco. I 60 monaci si rifugiarono in Lussemburgo, poi al Priorato di Conques. Nel 1795 la comunità fu ufficialmente soppressa e, l’anno successivo, il monastero venduto finendo per diventare una cava di pietra.
Nel 1887 le rovine di Orval e le terre circostanti furono acquistate dalla famiglia De Harenne che, nel 1926, con Charles-Albert, le donò all’ordine cistercense perché ristabilisse la vita monastica.
Nel 1927 Jean-Baptiste Chautard, abate di Sept-Fonds (nella regione francese di Allier), di fronte alla minaccia della secolarizzazione, accettò la responsabilità della rifondazione e mandò a Orval un gruppo di monaci come nucleo della nuova comunità. Questi monaci, che conoscevano l’allora segreta ricetta del formaggio trappista Port Salut, ne iniziarono la produzione anche a Orval. Altri monaci furono richiamati dal monastero brasiliano di Nostra Signora di Maristella.
L’enorme compito della ricostruzione fu affidato a Marie-Albert van der Cruyssen, monaco dell’abbazia de La Trappe; il progetto, all’archietto Henry Vaes. E la ricostruzione cominciò dalle stesse fondamenta del monastero del secolo XVIII, che erano ancora in buono stato di conservazione.
Un po’ tutti diedero il loro contributo economico: religiosi, intellettuali cattolici, amanti delle arti del Belgio. Fu costituito anche un comitato sotto il patrocinio della Corona; addirittura furono coinvolti i campi di lavoro dei boy scout.
Purtroppo, nel 1931 l’edificio non era stato ancora completato. Allora Marie-Albert van der Cruyssen pensò bene di aprire una fabbrica di birra. Sì, la comunità religiosa si guadagnava il pane in diverse attività; ma bisognava anche assicurare il mantenimento futuro all’abbazia che stava per rinascere. Soprattutto, necessitavano i mezzi per portare a termine la ricostruzione. Fu quindi destinata agli impianti produttivi un’ala dell’immenso complesso che, a vederla, sembra una cappella.
Essendo stato ripristinato con aiuti finanziari esterni, il birrificio passò fin dall’inizio sotto la gestione laica. Venne comunque costituita una società con le azioni intestate alla Trappist Community of Orval. Questo, nel 1931, data ufficiale della nascita della Brasserie d’Orval.
Ma le prime testimonianze certe di una birreria a Orval risalgono al 1628. In un documento del tempo, l’abate Bernardo, specifica nel dettaglio la quantità di birra e di vino che poteva consumare ogni monaco. Si ritiene comunque che da sempre ci sia stata una birreria all’interno del monastero, considerando i numerosi quadri in cui vengono raffigurati monaci con boccali di birra e immagini di brassaggi.
La prima birra vide la luce il 7 maggio 1932 e fu commercializzata in barili di legno. Fu anche la prima birra trappista a essere distribuita su scala nazionale.
Il primo birraio fu il laico bavarese Martin Pappenheimer, coadiuvato da John van Huele di Ostenda. Pare che la pesante luppolizzazione della Orval fosse merito del tedesco, amante della pils; del suo assistente belga invece, l’introduzione del dry hopping.
Nel 1936 Orval fu nuovamente ordinata abbazia, e nominato abate Marie-Albert van der Cruyssen. Mentre i lavori terminarono nel 1948, regalandoci in compenso un vero gioiello architettonico in pietra. Nello stesso 1948 fu consacrata la nuova chiesa.
Nel 2013 lo storico birraio della Brasserie d’Orval, Jean-Marie Rock, andò in pensione, dopo 28 anni di servizio. Prese il suo posto Anne-Françoise Pypaert, la prima donna birraia all’interno di un monastero trappista, che però negli ultimi 20 anni era stata la responsabile (oltre che della produzione del formaggio) del laboratorio interno di controllo qualità della birra.
L’autosufficienza economica dell’abbazia è assicurata dai proventi della produzione di pane, formaggio, miele e confetture. Pertanto i profitti derivanti dalla vendita di birra sono impiegati per la manutenzione degli edifici e per finanziare organizzazioni caritatevoli e sociali locali.
Oggi, nel birrificio lavorano 32 laici. I monaci si limitano a controllare i processi produttivi e a supervisionare che la qualità del prodotto finale sia eccellente.
Allo scopo di tutelare la struttura dell’abbazia, che ospita peraltro anche un albergo, per volontà della comunità monastica la fabbrica non può espandersi, e, di conseguenza, la produzione annua deve essere contenuta entro i 45 mila ettolitri. Anche in considerazione del fatto che ai monaci interessa la qualità del prodotto che, ovviamente, verrebbe a scadere favorendo la quantità.
A differenza degli altri monasteri trappisti, Orval fabbrica un solo tipo di birra, dal carattere eccezionalmente complesso. Interpretazione del tutto particolare della birra trappista, è senz’altro la più originale nell’ambito della tipologia. Il suo gusto ineguagliabile è stato definito, in francese, le goût d’Orval (“il gusto di Orval”).
Normalmente il processo produttivo avviene a porte chiuse. Il birrificio apre le porte al pubblico solo due volte all’anno.
Negli ultimi anni le attrezzature per la produzione della birra sono state ammodernate con significativi investimenti. Comunque, il birrificio continua a seguire i metodi originali, utilizzando l’acqua limpida e purissima del leggendario “pozzo di Matilde”; tre malti chiari e due caramellati (lavorati secondo le direttive del monastero e che contribuiscono all’inconsueta tonalità arancione del colore); due varietà di luppolo (Hallertau e Styrian Golding, quest’ultimo anche a secco con fiori freschi); un lievito attivo tra i 15 e i 20° preparato dal ceppo puro autoctono (impiegato nella fermentazione primaria ma che rimane attivo anche nella rifermentazione in bottiglia); lieviti selvaggi “coltivati” (adoperati nella fermentazione secondaria); aggiunta di zucchero candito (che, oltre a favorire una schiuma voluminosa, interviene anche nel colore e nel bilanciamento del gusto).
La fermentazione principale dura sei giorni; la seconda, nei tini, tre settimane; quella che i frati considerano la terza, ovvero il condizionamento in bottiglia, sei settimane (sei mesi per la birra venduta presso l’abbazia) in magazzini climatizzati a 15 °C.
Benché la birra Orval goda di un enorme apprezzamento all’estero, soltanto una minima percentuale della produzione esce dai confini nazionali, diretta, in particolare, verso Olanda, Lussemburgo, Francia, Gran Bretagna, Svizzera, Italia.
Orbene, i monaci preferiscono ripartirla in modo equo tra i distributori belgi che ne fanno grande richiesta.
È possibile fare una visita guidata, a pagamento, delle rovine della ricostruzione del secolo XVII, dove si possono ammirare l’antica farmacia con il giardino di piante medicali, il museo situato nella vecchia cripta e la famosa “fontana Matilde”. Si può altresì ammirare anche uno scorcio della nuova costruzione che però non è visitabile in quanto, secondo la Regola, si disturberebbe il lavoro e la preghiera dei monaci.
La birra di Orval, il cui logo, come accennato in precedenza, è basato sulla leggenda dell’abbazia, viene confezionata in particolati bottiglie da 33 cl. L’impianto riesce a riempire 24 mila bottiglie all’ora.
La bottiglia, il bicchiere e i sottobicchiei furono progettati dall’architetto Henry Vaes, lo stesso che progettò la ricostruzione dell’abbazia.
La bottiglia, la cui forma somiglia un po’ a quella di un birillo del bowling, è stata accuratamente studiata per trattenere sul fondo il sedimento.
La Orval è la classica birra da meditazione. Ma, per consentire di apprezzarla in modi diversi, l’abbazia ha preparato un libro di ricette a base della propria bevanda.
Per gustarla al meglio si consiglia una temperatura di servizio intorno ai 14 °C. Va servita poi nel suo caratteristico bicchiere Orval, una coppa larga, che riprende le linee gotiche dell’abbazia. La tecnica è particolare: prima, tre quarti in un colpo solo; il resto, dopo aver naturalmente roteato la bottiglia per agitare il deposito ricco di lieviti e di vitamine del gruppo B.
Da tener presente che la Orval è portata per l’invecchiamento, fino a cinque anni al buio della cantina. Al momento dell’imbottigliamento infatti, vengono inoculati lieviti selvaggi che, col passare del tempo, apportano importanti cambiamenti al profilo aromatico e gustativo. Per poter quindi apprezzare al top le goût d’Orval bisogna attendere la perfetta maturazione che richiede almeno due o tre anni dall’imbottigliamento.
Orval, trappista triple di colore ambra scuro con riflessi aranciati e dall’aspetto velato (g.a. 6,2%); senz’altro la più originale della tipologia. Con una carbonazione elevata, l’esuberante schiuma biancastra si rivela compatta, cremosa, straordinariamente persistente. La pesante luppolizzazione si mette subito in mostra all’olfatto, con puliti, freschi, pungenti profumi lattici e aspri di scorza d’agrume, fiori bianchi, fieno appena falciato; ma non mancano, in sottordine, sentori di prugne e susine, erbe officinali e chiodi di garofano, liquirizia e pepe bianco, china e rabarbaro. Il corpo, medio-leggero, ha una consistenza piuttosto acquosa. Il gusto presenta una complessità inusuale: amarognolo all’inizio, ha tutto il tempo, in una corsa lunga e concitata, di esibirsi nelle sue evoluzioni a breve distanza, quasi cadenzate, da una fresca asciuttezza a un morbido fruttato, dai toni vegetali a quelli speziati, dalle note agrumate a quelle di liquirizia, dal redivivo amarognolo iniziale ai richiami nasali di china e di rabarbaro. Per ultima, arriva la rinfrescante acidità con un suggerimento di salvia: generoso dono del lievito Orval. Il finale si propone con un modesto amarore, a base di terra, erbe aromatiche, scorza di mandarino. Completa l’“opera” l’articolara ricchezza del retrolfatto, con impressioni vegetali, agrumate, luppolizzate.
Petit Orval, trappista single (g.a. 4,5%); conosciuta anche come Orval Vert. È la birra per il consumo giornaliero all’interno dell’abbazia. I monaci infatti possono assaggiare la Orval solo due volte all’anno. È ottenuta per diluizione con acqua del mosto di Orval prima della fermentazione. Rispetto alla Orval, si presenta tutta in modo più attenuato, a cominciare dal colore. Ovviamente non viene immessa in commercio; è comunque disponibile presso lo spaccio del monastero o nel suo annesso Café.